Foto: Marcello Di Francesco
Subacqueo preparato

Anidride carbonica: l’ospite indesiderato (parte 2)

Questa è la seconda parte di una serie di tre puntate sul tema anidride carbonica, tra le cause più comuni di emergenze subacquee. La prima parte è disponibile qui. La terza parte verrà pubblicata in un prossimo numero di Alert Diver.

Perché un eccesso di anidride carbonica è pericoloso?

Il termine tecnico per indicare livelli eccessivamente elevati di anidride carbonica è ipercapnia. L’ipercapnia provoca una serie di effetti crescenti, a partire da una lieve compromissione neurologica che colpisce la cognizione e il controllo motorio, effetti che possono essere o meno percepiti dal soggetto.

La CO2 è più narcotica dell’azoto di 20 volte. Concentrazioni eccessive nel flusso sanguigno hanno un forte impatto psicologico, causando confusione e comportamenti irrazionali. L’ipercapnia può anche scatenare ansia, irritabilità, reazioni violente, fuga o panico. In qualche modo l’ipercapnia rende stupidi e paurosi allo stesso tempo: una combinazione non ideale. Nella sua forma grave, l’ipercapnia è debilitante e alla fine provoca la perdita di coscienza.

L’ipercapnia provoca anche vasodilatazione, cioé l’espansione dei vasi sanguigni. I vasi sanguigni nel capo sono numerosi e il nostro cranio non ha la capacità di espandersi. Di conseguenza, l’aumento del flusso sanguigno provoca un aumento della pressione intracranica. Se avete mal di testa dopo un’immersione, potreste prendere in considerazione l’eccesso di anidride carbonica come potenziale responsabile. L’aumento dell’afflusso di sangue al cervello e al sistema nervoso centrale comporta anche un maggiore apporto di ossigeno a questi organi, il che rende il subacqueo più suscettibile alla tossicità da ossigeno del sistema nervoso centrale (CNS).

Poiché il riflesso respiratorio è attivato dall’anidride carbonica, non sorprende che la dispnea (respiro corto) sia un sintomo frequente dell’ipercapnia. Esistono però grandi differenze individuali nella suscettibilità a questo effetto, per cui la sua assenza non garantisce che non si verifichino altri effetti, come il deterioramento cognitivo.

Una volta che l’ipercapnia si instaura, i suoi effetti di solito durano almeno alcuni minuti nei casi lievi, ma possono durare per diverse ore in quelli più gravi.

Sott’acqua tutto diventa più complicato

Inutile dire che tutti i sintomi descritti diventano più impattanti sott’acqua di quanto lo sarebbero sulla terraferma. Cadere in stato d’incoscienza comporta un elevato rischio di annegamento, mentre il deterioramento cognitivo e altri effetti psicologici, come l’ansia o il panico, possono portare a decisioni sbagliate e impulsive. La dispnea, anche quando è relativamente lieve, e la conseguente respirazione pesante possono avere effetti disastrosi sulle riserve di gas respirabile del subacqueo. La nostra risposta “combatti o fuggi” è estremamente controproducente in qualsiasi scenario d’immersione.

Spazio morto anatomico

L’effettivo scambio di ossigeno e anidride carbonica tra sangue e gas respiratorio avviene negli alveoli, piccole sacche situate all’estremità dei polmoni. Per essere eliminata completamente dal nostro sistema, tuttavia, la CO2 deve passare dagli alveoli attraverso i bronchi, la trachea e le cavità della testa, prima di essere espirata.

Queste parti intermedie sono chiamate collettivamente spazio morto anatomico. Non contribuiscono allo scambio di gas, e la quantità di gas che rimane in questi spazi dopo l’espirazione, compresa l’anidride carbonica, viene inalata nuovamente nel ciclo respiratorio successivo. Il volume dello spazio morto anatomico di una persona media è di circa 150 ml, mentre il volume polmonare medio a riposo (cioè il volume di aria che entra ed esce dai polmoni per ogni ciclo respiratorio) è di 500 ml. Ciò significa che re-inaliamo circa il 30% dell’aria viziata e ricca di anidride carbonica che lascia i nostri alveoli. Quando si respira più profondamente, volontariamente o a causa di uno sforzo, il volume è inferiore.

Durante l’immersione, il volume dello spazio morto anatomico viene aumentato dal boccaglio e dalla camera del secondo stadio o dal boccaglio del rebreather. Questo spazio di aria morta aggiunto riduce la quantità di CO2 che scarichiamo effettivamente per ogni ciclo respiratorio.

Sforzo respiratorio, densità dei gas e compressione dinamica delle vie aeree

Un secondo e più importante fattore che entra in gioco sott’acqua è lo sforzo respiratorio (Work of Breathing o WOB). E’ un indicatore del lavoro che i nostri muscoli devono compiere per spostare i gas dentro e fuiori dai polmoni.

Questo sforzo è un elemento del flusso di massa dei gas – la massa fisica delle molecole di gas che passano attraverso una sezione trasversale delle nostre vie aeree, per unità di tempo. A sua volta, questo flusso è una funzione di altri tre elementi: la frequenza respiratoria (velocità con cui respiriamo), il volume tidalico polmonare (quantità di gas per ciclo respiratorio) e la densità del gas (la massa del gas per il volume).

In condizioni normali – respirando aria senza ostacoli e a pressione atmosferica – il nostro diaframma è in grado di svolgere questo lavoro senza difficoltà. Come il nostro cuore, è un muscolo ottimizzato per l’efficienza e la resistenza, che produce pochissima CO2 ed è in grado di lavorare ininterrottamente per tutta la vita senza richiedere riposo. Questo lo distingue dalla maggior parte degli altri gruppi muscolari: non possiamo camminare o fare flessioni per periodi di tempo indefiniti.

Tuttavia, respirare aria a pressione atmosferica non è quello che facciamo quando ci immergiamo. La pressione ambiente aumenta con la profondità, così come la densità del gas. Una maggiore densità significa un aumento del flusso, quindi un accresciuto sforzo respiratorio. Quando questo sforzo supera il livello che il nostro diaframma è abituato a sostenere, la produzione di CO2, e con essa il rischio di ipercapnia, aumenta drasticamente.

Questo effetto è ulteriormente aggravato dalla cosiddetta compressione dinamica delle vie aeree. Le nostre vie aeree non sono tubi rigidi, ma flessibili. A causa dell’attrito lungo le pareti delle vie aeree, un elevato flusso di massa di gas crea un differenziale di pressione, che a sua volta causa la compressione dei tubi e la limitazione del flusso, un effetto simile a quello che si verifica durante un attacco d’asma. Nel 2003, i ricercatori italiani Enrico Camporesi e Gerardo Bosco hanno dimostrato che la ventilazione massima in volume (per l’aria) che una persona può raggiungere a 30 metri di profondità è circa la metà di quella massima a pressione superficiale.

L’effetto dell’attrezzatura

Oltre al carico interno creato dal movimento di gas denso all’interno delle nostre vie respiratorie, un altro fattore che contribuisce allo sforzo respiratorio è il carico esterno creato dall’attrezzatura subacquea. I muscoli che regolano la nostra respirazione non devono solo spingere il gas avanti e indietro, ma forniscono anche l’energia per azionare le parti meccaniche del secondo stadio dell’erogatore. Inoltre, il boccaglio agisce come un vero e proprio collo di bottiglia: aspirare aria attraverso una piccola apertura richiede più energia che attraverso una grande apertura. Provate a respirare con una cannuccia mentre camminate e capirete meglio di cosa stiamo parlando.

Quando ci si immerge con un rebreather, il volume di gas che viene spostato è di gran lunga superiore a quello del circuito aperto: Non solo i nostri polmoni e le nostre vie respiratorie, ma l’intero circuito respiratorio è pieno di gas che deve essere spinto lungo il circuito. Lo scrubber offre un’ulteriore resistenza e i polmoni del subacqueo rimangono l’unica pompa disponibile. Ridurre al minimo il sforzo respiratorio (WOB) è uno degli obiettivi principali nella progettazione dei rebreather, e si consiglia ai subacquei di essere ancora più conservativi per quanto riguarda la densità dei gas rispetto al circuito aperto.

Densità dei gas

In considerazione dell’aumento dello sforzo respiratorio, una ricerca di Gavin Anthony e Simon Mitchell consiglia di limitare la densità di qualsiasi gas respiratorio a 5 g/l, con un limite massimo di 6 g/l. Ciò corrisponde a profondità massime di immersione di 29 e 37 metri, rispettivamente, per aria e nitrox. Tuttavia, questi limiti non sono ancora stati adottati universalmente dalle agenzie didattiche. Il limite di profondità convenzionale per le immersioni ricreative è di 40 metri, e gli standard di addestramento per le immersioni con decompressione proposti da diverse agenzie fissano il limite ancora più in profondità, a 55 metri per l’aria, dove la densità del gas diventa quasi 8,4 g/l.

Emergenze

Durante le normali attività, la maggior parte delle variabili appena descritte nell’articolo rimane indifferente al subacqueo. Tuttavia, quando gli sforzi e le richieste metaboliche del nostro corpo aumentano, ad esempio in corrente, in profondità, o quando dobbiamo assistere un compagno d’immersione in situazione d’emergenza, queste variabili possono improvvisamente presentarsi e trasformare una situazione gestibile in una difficile, o peggiorare ulteriormente una situazione già difficile.

Con questo articolo si conclude la seconda parte della nostra piccola serie. La terza parte si concentrerà sulle contromisure da adottare: abilità e procedure per tenere sotto controllo il nostro carico di CO2. Rimanete sintonizzati!


Sull’autore

Tim Blömeke è istruttore di immersioni ricreative e tecniche a Taiwan e nelle Filippine. È un subacqueo con una grande passione per le grotte, i relitti e il circuito chiuso, nonché collaboratore e traduttore per Alert Diver. Vive a Taipei, in Taiwan. Puoi seguirlo su Instagram @timblmk.


Traduttore: Cristian Pellegrini

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