Foto: Marcello Di Francesco
Un occhio agli incidenti

Niente panico, siamo subacquei!

Vivere l’ansia, anche solo per un breve periodo, non è mai piacevole. A maggior ragione quando è accompagnata dal suo fratellastro cattivo, il panico,  e ancora di più quando se ne fa esperienza non sulla terraferma, ma sott’acqua. “La maggior parte di chi lavora nella ricerca subacquea crede che il panico sia la causa schiacciante della maggioranza dei feriti e morti in immersione”. Qualsiasi guida subacquea o istruttore esperto può confermare queste affermazioni. Ciò però non deve farci pensare che il panico sia un nemico sempre in agguato, pronto a colpire chiunque senza distinzione di età, esperienza, sesso o razza: per quanto pericoloso, il panico è generalmente evitabile. Uno studio recente (Colvard et al., 2000) ha preso in esame oltre 12.000 subacquei che hanno sperimentato il panico durante l’immersione con l’obiettivo di scoprirne i motivi. I risultati sono stati sorprendenti.
 

Agli intervistati è stato offerto un elenco di 43 possibili cause del panico, quali “squali”, “oscurità”, “mancanza di aria” e così via. Le opzioni erano suddivise in tre categorie, relative a condizioni di immersione, problemi all’attrezzatura, problemi fisici e/o psicologici. I subacquei sono stati invitati a valutare quali di queste minacce fossero (state) presenti durante gli attacchi di panico. Ebbene, tra tutte le 43 possibili minacce, le tre caselle più selezionate in ogni categoria sono state le ultime, ovvero: “Altro.” Insomma, gli eventi scatenanti le reazioni di panico subacqueo non rientrano tra le cause oggettive di un problema o di una giustificata ansia situazionale. Nella maggior parte dei casi, il motivo scatenante era qualcosa di banale o di routine, qualcosa che in momenti di calma nessuno vedrebbe come motivo di panico.

Leggendo i rapporti annuali DAN sugli infortuni e incidenti mortali in immersione, è sorprendente riscontrare come un gran numero di immersioni si sarebbero potute concludere tranquillamente se il subacqueo si fosse attenuto ai consigli basilari della formazione. Pensiamo alla regola “Non trattenete il respiro e non risalite troppo velocemente”, a quante volte l’abbiamo letta, studiata, insegnata, messa in pratica, pensando che mai e poi mai faremmo un errore del genere. Eppure, chiunque può essere preso dal panico: un attacco di panico è volontario quanto un attacco cardiaco.

Il panico non è vigliaccheria, non è mancanza di coraggio, ma una reazione involontaria ad una secrezione massiccia di adrenalina nel flusso sanguigno per ordine del sistema nervoso simpatico, che di fronte a una minaccia enorme fa sì che la frequenza cardiaca, la temperatura corporea e lo zucchero nel sangue salgano rapidamente e vertiginosamente.

Cominciano a muoversi le “farfalle” nello stomaco o si prova un senso di nausea. Si inizia a sudare. La pelle si arrossa o impallidisce. Si respira più velocemente, meno profondamente e in maniera dispnoica (o irregolare). Si verifica il fenomeno definito “restringimento percettivo”: il campo visivo si può restringere perdendo la vista periferica, ottenendo un risultato simile al guardare il mondo esterno attraverso un tubo. La cosa peggiore è che ci si sente sempre più agitati e non si riesce a pensare con chiarezza. Ne consegue che la nostra attenzione viene focalizzata sul problema, così che la soluzione giusta per quella determinata situazione sembra svanire e non esistere più.

Con un vero attacco di panico in corso, c’è ben poco che la parte razionale del cervello possa fare per fermarlo in breve tempo, perché al corpo servono diversi minuti per metabolizzare l’adrenalina, ed il rischio di fare azioni avventate aumenta. La buona notizia è che, nonostante il mistero che lo circonda, il panico può quasi sempre essere prevenuto. Lo dimostra un indizio, a prima vista insignificante, riportato nello studio sopra menzionato. Anche se i risultati forniti dai sub sulle plausibili cause dei loro attacchi di panico sembravano apparentemente non correlati e talmente dispersivi da non poterne trarre una conclusione logica, statistica o epidemiologica, tutti tendevano a concordare sul fatto che avessero iniziato ad iperventilare poco prima che l’attacco di panico si manifestasse.

Vale la pena di ricordare che l’iperventilazione (il respiro rapido, superficiale, irregolare) è un classico segno di ansia. L’ansia è un accumulo di stress quotidiano che giunge al punto di generare un inconscio timore di non riuscire a risolvere i problemi; da qui scaturisce una sensazione di impotenza che amplifica l’incertezza, la preoccupazione, la fatica, la frustrazione e la paura che fanno comunque parte della vita quotidiana. È pertanto verosimile che questo sia ciò che accade al subacqueo che, come la maggior parte di noi, è stressato già prima di entrare in acqua.

Può esserci il ricordo di un’immersione difficile o spaventosa – il sub è preoccupato per questo. Forse le condizioni d’immersione sono insolitamente difficili. O forse ha fatto troppo tardi la sera prima, ha trovato traffico la mattina e ha dovuto correre per non perdere la barca. Oppure non riesce a togliersi quel dannato problema dell’ufficio dalla testa. Oppure l’istruttore, che a quel punto dovrebbe cambiare metodo, lo sta innervosendo, schernendo, insultando. O gli altri allievi sono particolarmente indisciplinati e rifiutano di seguire le direttive. Nel momento in cui entra in acqua il sub è tormentato, irritato, meno capace di reagire in modo coerente e pronto: quindi, si spaventa facilmente.

La respirazione risulta più difficile del normale, usa il GAV più del solito, e quando succede qualcosa di inatteso, anche innocuo (come la maschera che si stacca o la pinna che rimane impigliata) inizia ad iperventilare, ma l’aria sembra non bastare mai. Aumenta la sensazione di “fame d’aria” e il rischio di soffocamento. Il panico è vicino. Ovviamente non bisogna dare per scontato che tutti i subacquei che restano imbottigliati nel traffico mattutino avranno un attacco di panico: le persone, in quanto esseri umani diversi ed unici, affrontano lo stress e le preoccupazioni quotidiane in modi differenti. Alcuni sono più preoccupati di altri per lo stress e sono, quindi, più vulnerabili al panico. Tuttavia nessuno, come già detto, è immune al panico, perché la nostra soglia individuale di panico può anche cambiare da un giorno all’altro.

Per quanto possa apparire inquietante, ciò dovrebbe rassicurare il lettore sul fatto che un attacco di panico subacqueo raramente è improvviso — nella maggior parte dei casi, lo stress ha già lavorato per ore e, a volte, anche giorni. Alla fine la classica goccia fa traboccare il vaso e il sub si sente sopraffatto: la paura del fallimento scatena il panico. Pensiamo a un giocoliere con tre piatti in aria, poi quattro, poi cinque. Infine, un elemento in più risulta di troppo, e l’esibizione si conclude con una pioggia di stoviglie e un’esplosione di cocci. La causa della perdita di controllo non è il sesto piatto in sé, ma semplicemente l’avere troppi piatti in aria. Allo stesso modo, qualsiasi cosa può innescare e far esplodere il panico, che però può essere facilmente prevenuto “togliendo qualche piatto”, ovvero riducendo lo stress e la pressione psicologica quando siamo sott’acqua e rifiutando di farci carico di pesi inutili e responsabilità che non ci competono.

Uno dei modi migliori per ridurre ed evitare lo stress è istituire una serie di pause nella giornata dell’immersione: riposare, fare il punto della situazione e pensare a quello che si ha intenzione di fare dopo. Se arrivi stressato al punto di ritrovo, una volta parcheggiata l’auto, possibilmente prima di scaricare, fai una pausa di un minuto o due e rilassati. Quando l’attrezzatura è a bordo, ma prima di vestirti, fai una pausa. Quando sei in acqua, ma prima di immergerti, pausa. E così via per tutta l’immersione.

Ci sono almeno tre buone ragioni per cui pause frequenti riducono lo stress e aiutano a prevenire il panico. In primo luogo, le pause regolari riducono l’affaticamento; il riposo favorisce l’abbassamento del livello di adrenalina, il rallentamento del battito cardiaco, una respirazione più lenta e profonda, e il livello di anidride carbonica in soluzione ematica ritorna1 a valori normali. In secondo luogo, le pause sono una possibilità per godersi un momento di riposo mentale e senza stress in cui si può rallentare la corsa degli eventi con cui siamo obbligati a stare al passo, prestando così maggiore attenzione alle nuove esigenze che si presentano. Infine, le pause frequenti sono un’opportunità per pensare al prossimo compito e a come farlo.

Il prossimo passo è quello di vestirsi? Prima di saltare nella muta, fai una pausa ed organizza mentalmente gli step da seguire, uno dopo l’altro, e scorri mentalmente la lista degli adempimenti. Cerca di visualizzare i problemi che possono capitare e le relative soluzioni: nella psicologia dello sport, la visualizzazione si è dimostrata un’arma potente contro ansia, stress e panico. Le pause possono anche essere l’occasione per tenere la respirazione sotto controllo. La respirazione con la parete toracica, e non diaframmatica, è ad alta intensità energetica perché vengono usati i muscoli sbagliati.

Respirare con il diaframma è invece il modo naturale di respirare, induce uno stato di rilassamento ed è fondamentale per mantenere la respirazione sotto controllo: l’iperventilazione è infatti nota causa di ansia e panico. In conclusione, quando non ci si sente bene è meglio non immergersi. Quando si ha una sensazione di nausea e proprio non si ha voglia di immergersi per qualche ragione che non si riesce a identificare, è meglio non farlo. Non bisogna lasciare che la pressione dei compagni ci spinga oltre i nostri limiti perché inizieremmo l’immersione già stressati e più suscettibili al panico. Se c’è chi non capisce ed insiste facendoti sentire in imbarazzo, accusare un’otalgia improvvisa o sostenere di non riuscire a compensare bene è un’ottima scappatoia!


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