Foto: Marcello Di Francesco
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Capire gli incidenti subacquei: il Report Annuale

Gli incidenti possono accadere in qualsiasi attività umana. Se in un ufficio uno scaffale non fissato alla parete può costituire l’unico pericolo fatale, nella subacquea i pericoli potenziali si annidano in molteplici aree. Dalle attrezzature alle tecniche subacquee, dalle stazioni di ricarica delle bombole alle scalette delle barche, le aree che dobbiamo monitorare per la nostra sicurezza sono innumerevoli.

Il DAN Annual Diving Report non è stato redatto per ricordarci i nostri peccati, ma per ricordarci che il pericolo esiste e per migliorare gli strumenti che ci consentono di evitare gli incidenti. Per quanto sia umanamente possibile.

“Sebbene non sia possibile eliminare del tutto i rischi durante le immersioni, le pratiche sicure possono ridurli notevolmente. Per questo motivo sono essenziali. Per utilizzare efficacemente le pratiche sicure è necessario sapere quando, dove e come attuarle”.

Così esordisce, nella sua prefazione, William Ziefle, Presidente e CEO del DAN, nel 2020 DAN Annual Diving Report. Come subacquei sappiamo che la nostra attività è relativamente sicura, se paragonata a tante altre, soprattutto quelle che prevedono l’uso di attrezzature o condotte in ambienti diversi dal tipico habitat degli esseri umani. Ma anche che il rischio zero è un concetto abbastanza utopistico. Quello che invece non è utopistico è il percorso verso la mitigazione del rischio. Lo scopo dell’indagine è infatti individuare le aree cui prestare più attenzione e indirizzare i subacquei verso pratiche sempre più sicure.

È questo un compito che a volte fa sentire i ricercatori come se stessero guardando attraverso una nebbia planctonica. Non tutti gli incidenti subacquei vengono riportati ed i dati sono spesso sparsi in archivi diversi, in paesi diversi. Per alcune zone si è tenuto conto solo delle chiamate d’emergenza al DAN, mentre per altre sono stati sfruttati più canali, che vanno da Google Alert alle forze di polizia e di guardia costiera. A differenza dell’aviazione civile, il mondo della subacquea non dispone di un database unificato in grado di raccogliere tutti i rapporti sugli incidenti.

Esplorando la zona grigia

Gli autori del rapporto hanno individuato189 casi fatali in tutto il mondo direttamente correlati all’immersione nel 2018. Di questi; 100 casi si sono verificati nell’ambito della subacquea tecnica e ricreativa*, 59 nell’apnea, 13 nella subacquea industriale (operatori tecnici subacquei), 12 appartenevano a forze pubbliche (vigili del fuoco, polizia, protezione civile), 1 caso tra i militari e in 4 casi non è stato possibile stabilire l’area di attività. Se negli incidenti senza esito fatale è relativamente facile risalire alle cause, gli incidenti mortali spesso difettano di testimonianze e di esami clinici post mortem. Mancano per varie ragioni che vanno dalla privacy alla lunghezza delle indagini forensi, dalle disposizioni delle autorità locali. A volte la vittima è l’unico testimone. E a volte la testimonianza del compagno d’immersione non è affidabile.

Su questo aprirei una breve parentesi di riflessione rivolto alla comunità, soprattutto ai professionisti: quante volte, parlando delle circostanze di incidenti con gravi esiti, abbiamo sentito parlare di computer che scompaiono, di subacquei superstiti che raccontano di compagni spariti dalla vista in un battibaleno?

Lo shock gioca certamente un ruolo importante, così anche la vergogna e la paura delle conseguenze. Il dilemma è tanto antico da essere ben noto agli storici: quello del testimone inaffidabile. I vecchi metodi dell’Inquisizione sono fortunatamente retaggio del passato, ma la paura delle conseguenze, giudiziarie o morali che siano, persiste fino ai nostri giorni.

Un subacqueo che non è riuscito a evitare l’incidente del suo compagno potrebbe addirittura cancellare dalla sua psiche il ricordo stesso della sua inazione. E se gli storici ammettono che molti fatti e alcuni aspetti della vita del passato sono offuscati, nella subacquea lo sono molti sforzi per migliorare la sicurezza delle immersioni. Questa osservazione non andrebbe presa come una critica, ma come fattore di bias sul quale regolarsi per una indagine scientifica.

Costruire un quadro più chiaro

I numeri, anche se parziali o raccolti con metodi diversi, finiscono sempre per assomigliarsi. È successo anche con gli studi sul clima, quando un professore di Berkeley sollevò la questione del bias sulle isole di calore urbane, e sulla qualità dei dati forniti dalle stazioni di rilevamento. Partì una massiccia raccolta in pieno stile citizen-science. L’elaborazione dei nuovi dati raccolti confermò che il pianeta si stava davvero scaldando e lo stava facendo con le modalità suggerite dai precedenti studi. Se le testimonianze, affidabili o meno che siano, riguardano soprattutto le procedure e il rispetto delle regole, sugli altri piani i numeri sono coerenti. Soprattutto quelli relativi all’età e alle patologie. Non sorprende sapere che la causa ultima di morte è l’affogamento. Quello che il report ha cercato di investigare è cosa l’ha provocato. A dominare la scena c’è l’arresto cardiaco sostenuto da quadri clinici di comorbidità come ipertensione, aterosclerosi, cardiomegalia, asma, obesità e – per una percentuale insospettata nei subacquei quanto rilevante – assunzione di droghe o farmaci. L’età più a rischio nella subacquea, come si diceva una volta per l’infarto, sembra essere la fascia tra i 50 e i 59 anni d’età, ma neanche i più anziani possono sentirsi al sicuro rispetto a quelli che hanno meno di 30 anni.

Qui una domanda sorge spontanea: sono i vecchi subacquei ad avere più incidenti oppure la popolazione dei subacquei sta invecchiando? Un dato è certo: la subacquea ricreativa e l’apnea, aree dove si verifica l’84% degli incidenti mortali, sono attività praticate soprattutto in paesi dalle economie avanzate dove l’età media è molto alta. Una possibile risposta è una mancanza di ricambio generazionale.

Mappe e percorsi

Le richieste di assistenza a DAN Europe da diverse aree del mondo, per incidenti che vanno dal barotrauma alla malattia da decompressione, rispecchia la distribuzione dei subacquei europei nei rispettivi luoghi geografici di attività. La sovrapposizione dei dati di DAN Europe con gli altri dati potrebbe suggerire che non ci sono luoghi o fasce di età più pericolose ma fasce di età e luoghi dove ci sono più subacquei. Ogni indagine scientifica, cercando delle risposte, nel suo percorso incappa in altre domande.

La percentuale di uomini e di donne vittime di incidenti rispecchia la percentuale tra uomini e donne subacquei? In quali casi le donne hanno più incidenti degli uomini e viceversa? Come la ricerca di risposte stimola altre domande, il viaggio utopistico verso lo zero incidenti stimola soluzioni per una maggiore sicurezza. Secondo il report, almeno tra i cittadini degli Stati Uniti e Canada gli incidenti sono sensibilmente diminuiti rispetto alla media dei dieci anni precedenti.

In fisica lo zero assoluto è una temperatura teorica, ma l’attuale tecnologia, quella per lo stoccaggio criogenico dell’idrogeno, per esempio, è arrivata ad una manciata di gradi centigradi dall’assoluto teorico. Il report è la mappa di una fase del viaggio, un panorama, se si vuole. Un panorama sul quale ci soffermeremo ancora.

*A partire dal 2023 I DAN Diving Reports classificheranno le immersioni in: circuito aperto ricreativo, circuito aperto tecnico, immersioni in grotta, immersioni con rebreather e immersioni in apnea.


Sull’autore

Membro DAN dal 1997, Claudio Di Manao è Istruttore PADI e IANTD. A Sharm el Sheikh in Egitto scrive e pubblica ‘Figli di Una Shamandura’, il primo di una fortunata serie di libri ironici sulla vita di subacquei e istruttori in Mar Rosso. Collabora con magazine, radio e quotidiani occupandosi di ambiente marino, viaggi e subacquea. Tra le sue collaborazioni: Alert Diver.eu, Rsi (Radiotelevisione Svizzera di lingua italiana), ScubaZone, Scubaportal, Corriere del Ticino, ImperialEcoWatch, Nereus, GoRedSea.

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